MUKHALINGA : IL VOLTO DI SHIVA
di Renzo Freschi

Quante decine di migliaia di anni fa i nostri antenati ebbero la consapevolezza che è l’unione dei due sessi a causare la nascita, dopo nove mesi, di un nuovo essere umano? Probabilmente questo risultato fu considerato qualcosa di soprannaturale, che avveniva per grazia divina ma dato che il dio non era visibile lo erano invece i suoi strumenti generativi: il fallo e la vagina, che divennero oggetto di culto. Il mistero della creazione è uno degli archetipi più potenti della storia dell’uomo e ogni cultura lo ha sviluppato in una propria mitologia. Nel mondo occidentale la scienza moderna ha svelato il mito lasciando immutata solo la forza dell’istinto ma in India questo mito divenne religione più di duemila anni fa e l’unione del fallo/linga e della vagina/yoni è tuttora una delle icone più venerate del mondo indù. Vuole il mito che nella competizione tra Vishnu e Brahma su quale dei due fosse il Creatore, improvvisamente emergesse da quell’oceano infinito e senza tempo un fallo del quale nessuno dei due riusciva a trovare le estremità. Improvvisamente da una fessura del fallo si manifestò Shiva, che si proclamò il principio da cui tutto inizia e tutto finisce.

Da alcuni inni dei Rg Veda sembra che il culto del fallo fosse praticato già nei primi millenni prima della nostra era ma il primo esempio di linga in cui compare la figura di Shiva risale al primo secolo a.C. quando si stava formando l’iconografia indù, cioè la rappresentazione delle innumerevoli divinità nelle loro specifiche forme. Da quel momento il linga con la testa di Shiva – forma iconica – oppure come semplice cilindro – forma aniconica – (vedi foto in fondo all’articolo) si irradiò in tutta l’India e nelle regioni di influenza indù (Nepal, Cambogia, Indonesia). Tuttavia il sesso maschile -linga- e quello femminile -yoni- essendo complementari erano quasi sempre rappresentati uniti ma con la testa del fallo rivolto verso l’alto, perché considerato il principio Creatore dal quale tutto nasce per poi essere distrutto o piuttosto riassorbito in un ciclo infinito. Per oltre un millennio il linga fu rappresentato sia come un semplice cilindro di pietra, sia con una, quattro o cinque teste ma nel XVIII secolo in una regione dell’India centro-meridionale che comprende il Maharashtra e il Karnataka iniziarono ad essere prodotte teste o maschere in metallo che venivano inserite sopra il linga dandogli una realistica parvenza umana. La fisionomia di queste teste è quella tipica dell’epoca in cui sono state prodotte, la stessa che si vede nei dipinti coevi di quelle regioni.

Queste teste in bronzo e ottone, internamente cave, hanno l’espressione solenne dell’affascinante unione di un’immagine divina con quella di un fiero guerriero. Sono chiamate mukhalinga (da mukha, volto, e linga, il fallo eretto di Shiva) e poste nei templi shivaiti dove sono venerate con aspersione di liquidi rituali e ornate con ghirlande di fiori. La foto in alto mostra la funzione di un mukhalinga che ricopre il fallo unito alla yoni. Tra le varie ragioni che contribuirono alla creazione dei mukhalinga c’era l’intenzione di rendere più facile ai devoti l’identificazione dell’aspetto fisico di  Shiva con quello astratto del linga ma  anche di attenuarne il significato strettamente sessuale legato a culti iniziatici (tantrici) di alcune sette shivaite. In Maharashtra e Karnataka inoltre si aggiunsero anche motivi “locali” cioè collegati a precise vicende storiche. L’impero Maratha (1674-1818) era l’ultimo baluardo indù contro l’espansione nel Deccan dell’impero Moghul e poi della Compagnia Britannica delle Indie. Le epiche e vittoriose battaglie di Shivaji (1630-1680), fondatore dell’impero, lo resero agli occhi del popolo la manifestazione vivente dell’invincibile potenza di Shiva (in India una figura molto importante di entrambi i sessi è talvolta considerata l’incarnazione di una divinità).

La foggia di barba e baffi di alcuni mukhalinga rispecchia la moda di allora e la forma del turbante trattenuto da una corona è quella dei nobili Maratha. La motivazione storica – che portò in queste regioni alla consistente produzione e diffusione dei mukhalinga – si collega anche a una tradizione ancora più antica, quella degli “eroi del villaggio” (viras), prodi cavalieri e difensori della comunità, considerati anch’essi manifestazioni locali di Shiva. L’espressione marziale, gli occhi spalancati per incutere paura al nemico, l’elmo da battaglia uniscono le qualità del guerriero agli elementi identificativi di Shiva: il terzo occhio sulla fronte, il piccolo shivalinga sulla corona, il cappuccio del cobra che si erge sulla testa del dio. I mukhalinga più importanti hanno gli occhi molto grandi e aperti per rinforzare il concetto di un dio a cui nulla sfugge. Le pupille sono incise durante la consacrazione e da quel momento diventano un contatto diretto tra il dio che tutto vede e il devoto che gli rivolge le sue preghiere.

Collocati nei grandi santuari come nei piccoli templi di campagna e sugli altari domestici, i mukhalinga venivano prodotti con la tecnica della fusione a cera persa con una lega di bronzo. Il colore del metallo varia a seconda della sua composizione ma anche dalle sostanze rituali con cui era asperso, sono proprio queste quotidiane manipolazioni che lo hanno “nutrito” e mantenuto per secoli vivo e brillante. Sono quindi tutti diversi e presentano una varietà stilistica che andava dal realistico al ritrattistico alla stilizzazione con una impronta fallica.

Associate ai mukhalinga sono anche le maschere di Shiva (mukhavta), prive quindi della parte posteriore, che potevano essere applicate sul linga oppure fissate a un supporto di legno e portate in processione in modo da diffondere nel territorio il potere del dio. Più semplici e economiche da produrre, le maschere mostrano una notevole varietà stilistica sia per dimensione che per efficacia espressiva. Quasi sempre hanno le orecchie sporgenti per dare al volto una maggiore rotondità.

Come gli dei sono destinati a proteggere l’uomo così i demoni e le calamità lo possono aggredire: forze invisibili immaginate con un aspetto terrificante. Ecco quindi che gli dei – e Shiva in particolare – possono assumere un aspetto ancor più minaccioso e spietato delle forze maligne, che al loro cospetto fuggono terrorizzate. E’ un percorso forse semplice ma altamente tranquillizzante che nelle stesse regioni da cui provengono i mukhalinga si manifesta con la produzione di teste di metallo associate al culto di Shiva. Rappresentano esseri mostruosi ma soprattutto Bhairava, forma terrifica del dio con la bocca spalancata, la lingua sporgente in un ghigno satanico, denti come zanne pronte a dilaniare e un macabro sorriso che a noi può sembrare una maschera teatrale ma che ai tempi appariva ai fedeli la terrificante espressione di un dio benevolo ma implacabile con i nemici. Al posto del collo hanno un supporto circolare in cui veniva infilato un bastone e con il quale erano portate in processione, come stendardi che sgombrano il percorso da qualunque pericolo.

Dal XVI secolo in questa parte dell’India centrale (Deccan) la scultura classica del Karnataka si fuse con quella tribale e popolare del Maharashtra in una forma inconfondibile per lo stile delle statue e il colore del metallo. In gran parte sono opere che celebrano Shiva (protettore del Maharashtra) e gli eroi-cavalieri, rendendoli icone di una forza umanizzata dall’aspetto fiero e potente.
Mukhalinga, Shivalinga, Viras, Mukhavta, Bhairava proteggono ancor oggi i fedeli indù che continuano ad aspergerli di fiori, di polveri e di sostanze rituali in quanto simboli di una fede millenaria.

Renzo Freschi
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