LE MASCHERE PRIMITIVE NEPALESI UNA SCOPERTA UN’AVVENTURA di Renzo Freschi
(Prefazione del libro Himalayan Masks Lanfranchi Collection, 2017
di Renzo Freschi e Luciano Lanfranchi)

         “Agli amici con i quali ho avuto la fortuna di fare prima una scoperta e di renderla poi un’avventura”

1971.IN CORRIERA A KATHMANDU. Nel 1971 arrivo a Kathmandu, al termine di un viaggio che dall’Europa porta, via terra, in Afghanistan, in India e infine in Nepal. Sono un giovane mercante che fa la spola tra Milano e l’Oriente, mi occupo di etnografia e arte popolare e viaggio in treno e in autobus tra gente di varie etnie che imparo a distinguere da costumi e gioielli. Quando arrivo a Kathmandu ho la sensazione di vivere nella Firenze del ‘500: una città, anzi una vallata, dove gli occhi si perdono tra pagode, templi e palazzi decorati come opere d’arte, la gente porta gli abiti tradizionali che identificano la professione, il villaggio, la casta e le feste religiose riempiono la città di processioni spesso mascherate che mescolano riti profani e cerimonie indù o buddhiste. Basantapur, la piazza principale, è affollata ogni mattina da venditori di antiche meraviglie: monili, oggetti di legno finemente intagliati, vecchi utensili lavorati dalle mani di abili artigiani, maschere, dipinti, oggetti rituali, libri miniati, statue sacre, che aspettano di essere acquistati dopo una trattativa che è un rito e insieme un modo per conoscere meglio chi ti sta davanti. Sono oggetti nepalesi ma anche tibetani, perché la diaspora ha portato nella vallata una folta comunità tibetana e con essa tutto ciò che ha potuto salvare o che fa arrivare attraverso vie clandestine.

1975. UNA SCOPERTA MISTERIOSA. Dopo la metà degli anni ’70 in quella piazza e nei negozietti del quartiere, alle “classiche” maschere tibetane se ne aggiungono altre, completamente diverse: coperte di peli, con straordinarie patine lucenti, espressioni truci o stralunate, talvolta fatte con pezzi di legno sommariamente sgrezzato. Nessuno sa o vuole dire da dove arrivino: probabilmente qualche raccoglitore locale, che va di villaggio in villaggio per rifornire antiquari e mercatini, ha trovato queste strane maschere, così antiche che persino i proprietari ne hanno perso la memoria. I primi a venderle sono i nepalesi della piazza, presto scavalcati dai tibetani -da sempre impareggiabili commercianti- che fiutano il business e aprono una miriade di negozietti dietro Freak Street, dove si va anche per chiacchierare e godere della simpatica compagnia. Tsering, Tashi, Passang, Rinchen, Dawa, persone che porto nel cuore, e poi anche Karma Lama che apre la Ritual Art Gallery, a pochi metri dal Palazzo Reale, dove vende maschere a prezzi così cari che solo i turisti ricchi possono permettersele.

SCIAMANI E TAMBURI. Nello stesso periodo mi capita un altro strano incontro. E’ mattina e mi trovo alla periferia della città. Il suono dei tamburi viene da lontano, forte, ritmato, veloce, poi lento, poi di nuovo veloce, ma non sono i tamburi che  ascolto la sera nei templi in cui i devoti cantano inni  agli dei. Cerco di capire da dove arrivi quel ritmo ipnotico e finalmente li vedo. Sono sette o otto uomini con un lungo costume bianco, collane di semi sacri a bandoliera e una corona di piume colorate in testa, che si muovono al ritmo dei tamburi a due facce che percuotono ritmicamente e sembrano in trance. È la prima volta in vita mia che incontro gli sciamani

Maschera da danza raffigurnte un buffone
Tibet

LE MASCHERE DEGLI SCIAMANI? A quel tempo frequento Piero Morandi, cercatore e esperto di tesori sconosciuti, il mentore che mi ha fatto scoprire l’arte popolare indiana e Éric Chazot, già studioso del mondo nepalese e futuro scrittore. La sera ci ritroviamo tutti eccitati per guardare le maschere appena acquistate e per fantasticare che gli sciamani le portino sul viso durante la trance per combattere le forze ostili della natura, il malocchio e le streghe. Maschere e sciamani sono un binomio perfetto, una formula magica che ci fa sentire dei novelli Giuseppe Tucci o Sven Hedin. Sono gli anni ’77 e ’78, la fantasia ha sposato l’ignoranza ma a quell’età sognare è più piacevole che conoscere.

In quegli anni si formano in città delle comunità di hippies in cui ognuno coltiva liberamente le proprie inclinazioni: la spiritualità, l’arte, il business, la droga, il trekking. Tra i tanti c’è un gruppo di italiani che fa capo a Piero Morandi, di francesi con Éric Chazot e un notevole numero di americani tra i quali Ian Alsop, che diventerà un importante esperto di arte e cultura nepalese. In questo variegato ambiente inizia una vera e propria caccia alle maschere primitive, sia per acquistare le più belle sia per conoscerne l’origine. Questo è il vero inizio della storia e del business delle maschere nepalesi, ma qualcuno era arrivato per primo…

1975. GLI INIZI DELLA STORIA. Già nel 1975 il torinese Fausto Doro, spericolato viaggiatore-avventuriero, porta in Italia le prime maschere himalayane. A quei tempi l’attenzione dei collezionisti è attratta da quelle tibetane, cariche di un fascino potente, ambasciatrici di un mondo ancora sconosciuto al grande pubblico. Ma Fausto ha un occhio d’aquila e precorre i tempi. Dopo un paio d’anni inserisce in una sua raccolta di ardite speculazioni politico-filosofiche,

Pubb. Il Primate a Stazione Eretta I, 1977

Il Primate a Stazione Eretta I, le fotografie di una seconda serie di maschere, alcune delle quali chiaramente primitive. È il 1977 e Doro ufficializza su carta stampata l’esistenza di maschere “come quelle africane”, come si diceva allora.

1978.ANTROPOLOGI, STUDIOSI, GESUITI. Ma torniamo a Kathmandu. Siccome la questione “esistono le maschere sciamaniche o no?” continua a essere dibattuta e irrisolta, nel 1978 decido di rivolgermi al mondo accademico, mi faccio coraggio e ottengo un appuntamento con Dor Bahadur Bista, il più noto antropologo nepalese, autore di People of Nepal, il primo libro sulle popolazioni e le etnie del Nepal. Quando vado a trovarlo all’Università di Kathmandu il suo sguardo verso il giovane lindo ma vestito all’indiana e palesemente hippy tradisce una forte prevenzione. Osserva distrattamente le foto delle maschere e mi liquida dicendo di non aver mai visto nulla di simile.

Incontro anche Michael Oppitz, un antropologo tedesco -poi divenuto Direttore del Museo di Etnografia di Zurigo- che da anni stava facendo una ricerca sui Magar in una sperduta area del Nepal settentrionale: anche lui dice di non aver mai visto quel genere di maschere. Consulto infine due ricercatrici americane che si occupano di linguaggio e struttura familiare, ottenendo lo stesso risultato.
Sono scoraggiato ma proprio nel ’79 è pubblicato a Kathmandu Faith-Healers in the Himalayas di Padre Casper J. Miller, un sacerdote gesuita residente in città che ha assistito e documentato numerose cerimonie di sciamani di diverse etnie in varie regioni nepalesi. Il suo libro diventa una specie di bibbia per chi è interessato all’argomento, e per me una vera fonte di ispirazione che imparo a memoria e che mi spinge a proseguire la ricerca. Decido allora che dovrei chiederlo direttamente agli sciamani -se e quando portano le maschere- e così organizzo due trekking in montagna per intervistarli e assistere a una importante festa che celebrano ogni anno in luglio.

INCONTRI RAVVICINATI CON GLI SCIAMANI. Durante il primo trekking, nel 1980, conosco Ram Bahadur Jhankri, uno sciamano molto rispettato nella zona di Barabise, che mi racconta la propria storia e i miti e i riti degli sciamani nepalesi. Mi introduce in un mondo di forze occulte, di premonizioni, di sogni, di scontri con streghe che lanciano il malocchio, di cure erboristiche e psicologiche: rimedi “primitivi” ma spesso efficaci in un territorio poverissimo e privo di altra assistenza. Afferma di non portare nessuna maschera e di non averne mai viste. Mi informo se nei villaggi della zona si trovano maschere simili a quelle dei negozi di Kathmandu ma senza successo.

Nel secondo trekking, nel 1981, arrivo sulla cima di Kalingchok (a 3850 mt. nel Nepal centrale) dove si riuniscono numerosi sciamani della regione per celebrare la loro divinità tutelare. Essere circondato da sciamani in trance è un’esperienza straordinaria. Danzano percuotendo ritmicamente il loro tamburo e cantano inni alla divinità che li ispira. Tutto si mescola sulla sommità di Kaligchok: riti millenari, devozione, preghiere, trance, offerte di fiori e sacrifici cruenti di animali e volatili, vita e morte, miseria e speranza nella benevolenza divina.  Come scriveva Giuseppe Tucci nel 1935 in Santi e briganti nel Tibet ignoto: diario della spedizione nel Tibet occidentale “…La gente si dice indù; di fatto non lo é; sopravvivono gli stessi culti animistici che abbiamo incontrato da quando siamo in territorio Bhutia (etnia che vive tra Nepal, Sikkim e Buthan, n.d.r.). Anche il Buddhismo tibetano non vi attecchisce. Nel centro del villaggio, su uno spiazzo semicircolare, alcuni pilastri di pietra conficcati nel terreno e alti più di due metri sono nuove tracce di quella religione megalitica che ho ritrovato parecchie volte nel cuore dell’Himalaya…”

Non trovo però alcuna traccia né conferma, da parte degli sciamani che intervisto, dell’uso sciamanico delle maschere. Torno quindi a Kathmandu con la convinzione di aver svelato almeno una parte del mistero: gli sciamani non portano maschere! La domanda che mi sono posto all’inizio di questa storia ha finalmente una risposta e decido di lasciare ad altri la ricerca sul significato e la provenienza delle maschere tribali nepalesi. Per alcuni anni continuo a occuparmi attivamente dell’arte primitiva nepalese, poi, lentamente, pur mantenendo i contatti con questo mondo, il mio interesse professionale si rivolge all’arte asiatica classica. Ma la scultura indiana, quella del Gandhara, l’arte cinese e quella Khmer non mi hanno fatto dimenticare le emozioni e il fascino di quella ricerca, l’entusiasmo di sentirmi un giovane esploratore in un mondo vivo e misterioso, tutto da scoprire.

Maschera con scarificazioni
Nepal centrale
legno
H. cm 33

1975.LE PRIME MASCHERE IN OCCIDENTE. Nel frattempo le prime maschere cominciano ad arrivare in Occidente prendendo due direzioni principali: in Europa, a Parigi e marginalmente a Bruxelles, e in America, a San Francisco e marginalmente a New York. Ma perché il mercato e il collezionismo dell’arte “primitiva” nepalese si concentra soprattutto in queste città invece di espandersi in tutto il mondo, come succede per l’arte Orientale “classica”, per la quale già molti decenni sono stati costruiti splendidi musei?
A Parigi, anche grazie a Picasso, al cubismo e alla scoperta dell’arte “negra”, da quasi un secolo le arti primitive sono uscite dall’ambito dell’avanguardia per entrare nei musei e nel gusto di un vasto pubblico. Non è quindi azzardato

Maschera Tribale
Nepal, montagne centrali
Legno con patina, vernice rossa
H. 34 cm

pensare che sia proprio questo background divenuto ormai conoscenza “popolare” a suscitare nei giovani viaggiatori francesi che arrivano a Kathmandu una curiosità e una predisposizione particolare verso questo genere di maschere. E probabilmente è anche questo orientamento, oltre al fascino verso qualcosa di sconosciuto, che porta  alla nascita di gallerie e delle prime collezioni di arte primitiva himalayana.
Altrettanto interessante è riflettere sulle origini di questo mercato in California.
Già negli anni ’60 la cultura “alternativa” era divenuta molto popolare tra i giovani di San Francisco e di New York. La beat generation prima e il movimento hippy poi hanno creato una diffusa sensibilità verso la cultura orientale. Come non ricordare la “Summer of Love” a San Francisco nel 1967 che con abiti esotici, droghe psicotrope e l’interesse per religioni orientali segna l’apice della “moda” giovanile per l’Oriente? Molti giovani americani volano a Londra e a Amsterdam da dove partono verso l’Afghanistan, le spiagge di Goa in India e Kathmandu sui famosi “Magic Bus” che collegano Occidente e Oriente.

1975-80 CALIFORNIA: HIPPIES, MERCANTI E MERCATINI. Tra il 1975 e i primi anni ’80 alcuni hippies di ritorno dall’Oriente cominciano a vendere privatamente e sui mercatini dell’area di San Francisco gli oggetti acquistati in India e in Nepal. Vicki Shiba, John Stewart, Robert Brundage e Bruce Gordon -che trova la prima maschera durante un trekking in Nepal-  sono tra i primi a introdurre l’arte primitiva himalayana in California. Con loro ci sono anche Tony Anninos, Bruce Carpenter, James Willis -che nel 1972 apre una galleria di arte africana- e Thomas Murray -specialista di maschere e di arte indonesiana, che sarà poi nominato dal Presidente Barack Obama Membro di Commissione della Consulta per i Beni Culturali. Alcuni, come Jeremy Pine, fanno la spola con il Nepal, altri, come Tom Cole e Bruce Miller, si stabiliscono e operano da Kathmandu, dove vive anche Ian Alsop. Si tratta quindi di una comunità composita: molti provengono dal movimento hippy e uniscono a uno stile di vita particolare un autentico interesse per la cultura dei Paesi che visitano; altri sono già mercanti d’arte e antiquari, altri ancora sono presi dal fascino di oggetti esotici e sconosciuti.

Mort Golub è uno di questi. Nel 1985, al mercatino di Sausalito, compera una misteriosa maschera nera appena arrivata da Kathmandu -come racconta egli stesso in un divertente articolo della rivista Arts of Asia– e nonostante sia costretto a riporla in un cassetto perchè fa paura alla figlia e Thomas Murray, richiesto di un parere, offra quattro volte il prezzo pagato, Golub decide di tenerla e proprio con quella maschera inizia, con l’aiuto dello stesso Murray, una delle prime collezioni di maschere himalayane.

Maschera rituale
Nepal, Montagne Centrali
Radica e vernice
H. 21 cm

Il potere misterioso di queste maschere è tale da influenzare il lavoro creativo di Golub,che produce tuttora delle maschere “made of various old materials joined by traditional methods” (parole di Golub) che sembrano spesso animate dallo stesso spirito “arcaico e sciamanico” di quelle originali. Dall’altra parte degli Stati Uniti, anche a New York l’arte tribale himalayana ha i suoi mentori: Moke Mokotoff, Arnold Lieberman, Maureen Zarember della Tambaran Gallery e Joe Gerena, mercante eclettico e competente che organizzerà molti anni dopo una mostra di maschere da tutto il mondo, antiche e moderne, rare e straordinarie, fantasiose e bizzarre.

PARIGI, I PIONIERI AVVENTUROSI. La comunità di viaggiatori-mercanti di Parigi è meno numerosa di quella americana ma ha il vantaggio di muoversi in un ambiente che nutre un secolare interesse per le arti extraeuropee e per quella orientale in particolare. Éric Chazot, Jean Pierre Janykian, Michel Lostalem sono i primi a portare dal Nepal opere tradizionali ma anche maschere primitive. A loro si aggiungono poi François Pannier, Christian Lequindre, Jean Luc Cortes e la Galleria Daffos-Estournel.

Nel 1981 Jean Jacques Porchez organizza nella Galleria L’Île du Démon, specializzata in arte indonesiana, la prima mostra dedicata esclusivamente all’arte primitiva nepalese: Art Tribal du Nepal presenta oggetti rituali sciamanici, strumenti musicali e un notevole numero di maschere, che il catalogo cerca di collocare nel loro contesto culturale e religioso. Uno dei saggi, Art et Chamanisme au Nepal, è scritto da Patrick Pevenage, pseudonimo di Éric Chazot, destinato a diventare negli anni il dominus delle maschere tribali nepalesi. La mostra all’ Île du Démon -nel cuore delle gallerie di arte primitiva di Saint Germain- suscita molto interesse verso oggetti mai visti prima: Josette Schulmann, Marc Petit, Max Itzikovitz, Alain Bovis e Michel e Liliane Durand-Dessert iniziano proprio in quegli anni le loro collezioni. Il mercato si afferma parallelamente anche a Bruxelles grazie a Dominique e François Rabier, Jean Pierre Jernander, Sylvie Sauvenière e poi a Joaquin Pecci.
Nel 1984 François Pannier -dopo alcuni viaggi in India e Nepal- apre la sua Galleria Le Toit du Monde, ancora oggi specializzata in arte tribale himalayana. Dopo alcuni mesi, in occasione della mostra di Pannier sulle maschere di animali Masques Animalier, Jean-Christophe Kovacs, passando davanti alla vetrina, rimane folgorato e ne acquista subito una. Kovacs si interessa al Tibet fin da bambino, la sua biblioteca è piena di libri sull’India e l’Himalaya, ma lui non sa da dove nasca questa precoce passione. Solo dopo che ha iniziato la sua collezione i suoi genitori gli svelano che uno dei suoi antenati è Sándor Kőrösi Csoma (1784-1842), esploratore e orientalista ungherese, considerato il padre della tibetologia e autore del primo dizionario inglese-tibetano. Lascio al lettore la libertà di credere alla casualità di questa parentela ma dato che la reincarnazione è uno dei fondamenti del buddhismo, è troppo seducente cedere al fascino di una coincidenza karmica! Kovacs è soprattutto un appassionato ornitologo abituato a esplorare il territorio per classificare gli uccelli, e dopo aver comperato un certo numero di maschere, decide di visitare i paesi himalayani col fratello Yvan. Iniziano a fare delle ricerche ornitologiche ma anche a classificare con metodo scientifico maschere, cerimonie e ambienti che i due incontrano durante i trekking. È l’inizio di una lunga avventura che attraverso venticinque viaggi in tutto l’arco himalayano permette ai Kovacs di fare una straordinaria esperienza sul campo e di mettere insieme un archivio di circa 50.000 fotografie.

Maschera rituale con corona
Nepal Centrale,prob. da un’area Buddista
Legno patinato

GLI ITALIANI E LE MASCHERE HIMALAYANE. In Italia, dopo la solitaria avventura di Fausto Doro, si forma un piccolo gruppo di mercanti che cerca di introdurre l’arte popolare indiana e nepalese in un ambiente poco permeabile alle novità. Nel 1978 ospito nella mia Galleria “Mandala” una mostra di maschere tibetane e nel 1984 propongo al CRT (Centro Ricerche Teatrali) di organizzare a Milano due mostre sugli sciamani e sulle maschere primitive nepalesi, entrambe curate insieme a Éric Chazot.

Angelo Attili, mercante di arte asiatica a Parma, nel 1996 apre alla Galleria Akka di Roma Alle Radici delle Religioni Tibetane, una mostra di oggetti e maschere tribali nepalesi. Infine Roberto Gamba, fotografo e mercante di arte primitiva, vende alla fine degli anni ’80 a Luciano Lanfranchi la maschera pubblicata sulla copertina di questo libro. È la prima dell’intera collezione, e da questa inizia il viaggio di Lanfranchi nel mondo delle maschere himalayane.

Maschera rituale prob. di protettore
Nepal, Colline Centrali
H.30 cm

Più recentemente in Italia, Gian Marco Matteuzzi si interessa di arte primitiva himalayana a seguito della lettura dei libri di Giuseppe Tucci e di viaggi in India e in Nepal, e nel 2008 crea Ethnoflorence, il primo sito non-commerciale di arte tribale asiatica. Lentamente il sito diventa il magazine dove viene postato tutto ciò che accade in questo ambito: mostre, libri, servizi fotografici, notizie e una Newsletter aggiornata. Matteuzzi costruisce negli anni il più vasto archivio digitale consultabile on line su richiesta.

1988. PARIGI, LA PRIMA MOSTRA PUBBLICA. Ma torniamo a Parigi. Nel 1988 Le Toit du Monde di François Pannier diventa il punto di riferimento di collezionisti e antropologi dell’Himalaya e le monografie Lettres du Toit du Monde  sono apprezzate per la serietà dei testi e dei collaboratori. Pannier ottiene quindi dall’Amministrazione Statale (EPAD) di organizzare l’esposizione pubblica Masques de l’Himalaya du Primitif au Classique negli spazi per le attività culturali della  Défense a Parigi. La mostra presenta 93 maschere di collezioni private e il catalogo contiene due testi di Marc Petit, scrittore e collezionista, e dell’ormai noto Eric Chazot.

1989. USA, “FACING THE GODS”. Contemporaneamente, negli Stati Uniti Lawrence Hultberg, gallerista di San Francisco, e Éric Chazot presentano il progetto di una mostra sulle maschere primitive nepalesi allo Smithsonian Institution di Washington, la più importante istituzione culturale e museale americana. La proposta è accettata e Facing the Gods, curata dagli stessi Hultberg e Chazot, viene presentata dal 1989 al 1991 in sette musei di cinque stati americani, dalle Hawaii alla Florida. Sono esposte 75 maschere provenienti da musei e da collezioni private americane ed europee, insieme a grandi fotografie di ambienti himalayani.
Tutte queste mostre segnano il punto di svolta per l’arte primitiva himalayana, che perde l’aura esotica che aveva all’inizio per acquisire un innegabile valore etnologico e artistico. Naturalmente il grande successo di quelle iniziative induce molte Gallerie private a organizzare esposizioni monografiche: Dave Deroche a San Francisco, la Met Gallery a New York e, sempre a New York, la Pace Gallery, che da tempo ha aggiunto una sezione di Arte Primitiva alla storica Galleria di Arte Moderna e Contemporanea.
Numerose riviste tra le quali Tribal Art iniziano a pubblicare articoli su questo argomento; nel 1995 la rivista Hali pubblica su The Second Hali Annual “Demons & Deities”, un lungo scritto da Thomas Murray sulla collezione di maschere di Mort Golub: l’articolo è importante perché presenta un certo numero di maschere di grande qualità e le classifica secondo il  contesto geografico  e culturale da cui provengono.

Maschera da danza
Gruppo etnico Monpa
Legno patinato
XIX secolo

Maschera di vecchia con gozzo
Gruppo etnico Monpa
India-Arunachal Pradesh
XIX secolo
Legno patinato e colori
H. 29 cm

NUOVI COLLEZIONISTI. Nascono nuovi collezionisti, come Sam e Sharon Singer, che trasformano la casa di San Francisco in un museo di arte primitiva con moltissime opere himalayane. In Spagna Eudald Daltabuit cura la Collezione Pons di Barcellona, e nella stessa città Gustavo Gili e Rosa Amoros iniziano la loro collezione che sarà pubblicata nel 2005 in Énigmes des Montagnes. Masques tribaux de l’Himalaya con due prefazioni di Eudald Daltabuit e di François Pannier.

Marc Petit è un artista e letterato parigino che dagli anni ’80 colleziona arte primitiva. Nel 1981 acquista la prima maschera nepalese e decide di partire per Kathmandu per conoscere l’ambiente da cui provengono queste maschere: è l’inizio di una collezione che nel 1995 è pubblicata in un bellissimo volume. À Masque Decouvert, regards sur l’art primitif de l’Himalaya illustra 120 maschere di grande qualità, interpretate da Petit con un approccio poetico, spesso surreale e talvolta azzardato. À Masque Decouvert propone, anzi impone al collezionismo di maschere himalayane una linea estetica da cui non sarà più possibile prescindere.

Tutte queste mostre, articoli, libri, nuove collezioni dovrebbero sancire per queste maschere un successo se non maggiore almeno consolidato, invece dopo il 1995 la situazione sembra inspiegabilmente ritornare a una normale routine. Mercanti e collezionisti riescono a sopravvivere ma l’offerta di arte tribale himalayana rimane ristretta a poche gallerie in Francia e negli Stati Uniti.  Ci vorranno dieci anni perché l’interesse, come un fiume sprofondato in una cavità carsica, riemerga e trovi finalmente una dimensione stabile e sicura. Questa pausa è tuttavia indispensabile, perché le domande poste all’inizio di questa storia -da dove vengono, chi rappresentano, quando sono usate queste maschere- hanno ricevuto fino a quel momento risposte parziali.

Maschera da danza
Gruppo etnico Monpa
India-Arunachal Pradesh

GLI ANNI 2000: RICERCHE E SCOPERTE. Iniziano anni di ricerche sul campo, trekking nella giungla, in sperdute vallate e in villaggi aggrappati alle montagne, viaggi tra comunità che conservano gelosamente le loro tradizioni e altre che invece si affacciano alla modernità con inevitabili contaminazioni. A quegli ex giovani che le hanno scoperte e ora ne cercano i segreti tra foreste e montagne si uniscono finalmente antropologi e studiosi che si occupano anche della cultura materiale, delle feste popolari e dei riti antichi. Insieme a Éric Chazot, Christian Lequindre, Jean Luc Cortes e ai fratelli Kovacs, numerosi antropologi fanno ricerche specifiche sul campo.

Maschera rituale
Radica
Colline Centrali, Nepal

Molti sono quelli che collaboreranno anche alle mostre organizzate negli anni successivi: Mireille Helffer, Dominique Blanc, Bérénice Geoffroy-Schneiter, Gérard Toffin, Pascale Dollfus, Gisèle Krauskopff, Christian Roustan Delatour e Anne Vergati, la quale pubblica un libro sulle maschere della valle di Kathmandu. Questa articolata collaborazione stabilisce finalmente un rapporto tra il mondo accademico e il mercato, cosa che permette alle informazioni di circolare con beneficio di tutti.

Come già detto, Kathmandu è stata fin dall’inizio “la capitale” delle maschere himalayane ma le differenti tipologie non arrivano contemporaneamente presso i rivenditori tibetani e nepalesi. Si può dire che arrivano a ondate legate alle scoperte dei raccoglitori che viaggiano per i villaggi alla ricerca di nuovo materiale. Quasi mai vi sono contatti diretti tra raccoglitori e compratori occidentali: il filtro dei mercanti locali è quasi impenetrabile; anche questa gelosia ha impedito per lungo tempo di conoscere i luoghi di provenienza delle maschere e quindi di risalire ai loro usi e significati.

Come suggerisce Jean-Christophe Kovacs, le maschere di tradizione tibetana e di Kathmandu sono le prime ad arrivare sul mercato tra il ’70 e l’80, seguite alcuni anni dopo da quelle Monpa e Sherdukpen portate dai pellegrini buddhisti che   dall’Himalaya orientale vengono a visitare i santuari della valle di Kathmandu. Solo alla fine degli anni ’90 sono “scoperte” le maschere del Nepal occidentale e le statue lignee fotografate molti anni prima da Giuseppe Tucci (Nepal: alla scoperta del Regno dei Malla). Negli anni ’80 e ’90 si trovano invece a Nuova Delhi le maschere dell’ Himachal Pradesh e delle vicine regioni indiane che spesso vengono portate anche a Kathmandu, centro del mercato di arte primitiva himalayana.

2007-2009.FRANCIA: MASCHERE, MOSTRE, MUSEI. François Pannier, divenuto ormai l’anello di congiunzione tra l’“Accademia” e il mercato, organizza nel 2007 tre mostre in contemporanea presso la Mairie du VIème Arrondissement di Parigi: la prima sulle maschere himalayane, la seconda sugli sciamani del Nepal con le foto che avevo scattato durante i miei trekking e la terza sui ghurras strumenti di legno intagliato per la produzione del burro in alcune vallate nepalesi. Quest’ultima è una esposizione particolarmente importante perché dimostra come l’interesse si sia esteso a nuovi aspetti dell’arte popolare e materiale di queste regioni.

Contemporaneamente Pannier apre al Museo Cernuschi, il museo di Arte Asiatica del Comune di Parigi diretto da Gilles Béguin -noto studioso di arte orientale- un seminario di due giorni, Colloque international sur les Masques et Arts Tribaux de l’Himalaya, con l’intervento di studiosi francesi e nepalesi.
Il 2009 è un anno fondamentale per la storia che stiamo raccontando. Christophe Roustan Delatour inaugura al Musée de la Castre di Cannes, di cui è attualmente Direttore supplente, la sezione dedicata allo sciamanesimo nepalese una serie di fotografie e un consistente numero di maschere tribali. È dal 1995 che Roustan Delatour esplora l’Himachal Pradesh ed è ormai diventato uno dei maggiori esperti delle feste tradizionali phagli della valle di Kullu tanto che nel suo archivio fotografico sono classificate oltre 300 maschere.

Sempre nel 2009 viene pubblicato Népal, chamanisme et sculpture tribale di Marc Petit e Christian Lequindre. Lequindre arriva in Nepal nel 1976 per dedicarsi unicamente alla sua personale ricerca spirituale buddhista ma il giorno della partenza per tornare in Francia una famiglia di rifugiati bhutanesi gli consegna alcuni tappeti e dipinti (thangka) da vendere in modo da avere le risorse per mantenersi. Dopo alcuni mesi Lequindre torna a Kathmandu per consegnare loro il denaro e inizia a interessarsi anche alle maschere primitive acquistando per prime quelle fatte con un pesce e con un fungo ora nella collezione Lanfranchi. Tra il 2000 e il 2005 Lequindre compie quattro viaggi in differenti distretti del Nepal. Sono esplorazioni particolarmente dure per la scarsità di cibo e ostacolate da complicate situazioni ambientali e sociali. Riesce comunque a documentare e filmare feste e cerimonie mascherate, che raccoglie in un dvd allegato al volume scritto con Petit: un’altra tessera del grande puzzle delle maschere nepalesi.

Maschera di protettore
Nepal o Tibet
XIX secolo
Legno

Maschera rituale
Colline Centrali, Nepal
Terai
Legno e peli

Maschera rituale
Nepal,Colline Centrali
Legno patinato

L’anno si conclude con la più importante mostra sulle maschere himalayane mai organizzata prima di allora in Europa. Curata da François Pannier presso la Fondazione di Bernard et Caroline de Watteville a Martigny in Svizzera, Masques de l’Himalaya presenta 143 maschere di collezioni pubbliche e private europee e americane. Il catalogo fa il punto sullo “stato dell’arte”, chiarisce il rapporto tra le maschere e le feste popolari e conferma la difficoltà di arrivare a una classificazione geografica e tipologica.

Nel 2010 e nel 2011 si aprono a Parigi due mostre consecutive sulla Collezione Durand-Dessert curate la prima da François Pannier e la seconda da Éric Chazot.  Michel e Liliane Durand-Dessert hanno avuto una galleria di arte d’avanguardia e collezionano da molti anni anche sculture africane. Nel 1987 acquistano le prime due maschere primitive himalayane, attratti da uno stile e un’estetica completamente diversi dai canoni dell’arte primitiva “classica”. La loro è una collezione imponente, che comprende maschere e sculture provenienti da tutto il Nepal. Lo stesso Chazot nel 2008 parte per Humla, una regione del Nepal nord occidentale ai confini con il Tibet, per una ricerca sulle danze mascherate dei Byanshi, pubblicata poi sulla rivista Sciences et Avenir. Il sentiero è impervio e improvvisamente frana, trascinando Chazot e il suo cavallo lungo uno strapiombo fino al greto del fiume Karnali. Chazot è in gravi condizioni, ha sei costole rotte, una vertebra fratturata e rimane immobilizzato per ore fino a quando, dall’alto del sentiero tra le rocce, qualcuno lo vede e lo salva. È bello pensare che Chazot sia stato protetto dal Ban Jhankri, lo sciamano primordiale a cui si rivolgono in preghiera tutti gli sciamani nepalesi. Durante la riabilitazione lavora ai due volumi della collezione Durand-Dessert con il resoconto dei molteplici viaggi fatti in tutto il Nepal. Chazot riesce finalmente a collegare alcune tipologie di maschere con il gruppo etnico di appartenenza e a scoprire in quali occasioni vengono utilizzate.

2010. IL MUSEO DI QUAI BRANLY. Nel 2010 avviene un altro fatto cruciale: Marc Petit dona al Museo di Arti Primitive di Quai Branly venticinque maschere della sua collezione, che vengono presentate nella mostra Dans le blanc des yeux. È un evento importante perché, come dice scrive il Direttore Stéphan Martin, “Con questa donazione il Museo ha giocato un ruolo da precursore, perché al momento è la sola collezione pubblica francese di maschere primitive nepalesi. Ci sembra che sia venuto il momento di rendere visibile al pubblico queste maschere affascinanti…” Come era successo con il suo libro del 1995, Petit propone la sua visione estetica come una linea guida. Finalmente, grazie alla collaborazione tra il collezionista e il Museo, l’Arte Primitiva Himalayana diventa parte della grande famiglia dell’Art Premier.

Anche il mondo dell’arte primitiva classica -africana e del Pacifico-, che aveva avuto verso quella himalayana un atteggiamento quantomeno prudente per la difficoltà di valutarla con i canoni tradizionali, inizia a guardarla con maggiore attenzione. Nel 2010 Renaud Vanuxem, gallerista parigino di arte africana, propone una serie di maschere nepalesi in collaborazione con Marc Petit e nel 2012 la galleria di Alain Bovis organizza Masques de l’Himalaya, le primitivisme sauvage. Bovis, collezionista e poi mercante di arte africana, inizia ad acquistarle negli anni ’90 “affascinato dalla loro forza selvaggia ma profondamente umana” perché ritiene che sia arrivato il momento di inserire anche opere himalayane nelle collezioni di arte primitiva classica.

Maschera rituale con doppio vajra
Nepal settentrionale
Area ad influenza Buddista
Legno
H. 25,5 cm

Dal 2010 presenta nella sua galleria ben quattro mostre consecutive sulle maschere himalayane; l’ultima, nel 2013, è dedicata alla collezione di Bruno Gay, eclettico collezionista parigino. Contemporaneamente, a Bruxelles, Joaquin Pecci apre una mostra di maschere nepalesi.
Anche le grandi Case d’Asta iniziano a inserire queste maschere nelle vendite di arte primitiva, e nel 2014 Sotheby’s aggiudica a Parigi una maschera di etnia Magar per 43.500 Euro.
In questi ultimi anni l’interesse per l’arte primitiva dell’Himalaya si è notevolmente consolidato e sono molte le gallerie che ne espongono regolarmente numerosi esempi e tipologie. Oltre alla storica galleria di François Pannier, una delle più attive è quella di Frédéric Rond, giovane antiquario parigino di arte asiatica classica e primitiva, che nel 2015 organizza Himalayan Tale con maschere provenienti da collezioni private internazionali; ma altre mostre sono organizzate a Helsinki, New York, San Francisco e San Gallo.

Mask di leone dell nevi
Nepal, Colline Centrali
Legno patinato e colori
XIX secolo

LE RICERCHE PIÙ RECENTI. Ultimamente gli studi e le ricerche sul campo permettono di avere un quadro più preciso, per quanto ancora incompleto, della cultura tribale himalayana. Nel 2014 esce Mascarades en Himalaya delle etnologhe Pascale Dollfus e Gisèle Krauskopff, dove sono raccolti i risultati di spedizioni  effettuate in diverse regioni himalayane. Il libro è illustrato con fotografie dalla fine dell’800 ai nostri giorni e documenta l’uso di alcune tipologie di maschere nel loro ambiente di provenienza. Alle maschere si aggiungono poi le sculture lignee del Nepal occidentale, studiate per molti anni sul posto da Jean-Luc Cortes e presenti anche nella collezione di Max Itzikovitz. Wood Sculpture in Nepal, Jokers and Talisman, scritto da Itzikovitz e Bertrand Goy- oltre a una acuta introduzione sull’arte primitiva nepalese- ne presenta una bella selezione.
Gli studi più recenti -come la ricerca e i documentari che Adrien Viel e Aurore Laurent fanno da molti anni- escludono che gli sciamani nepalesi indossino maschere, tuttavia il binomio sciamano-maschera è purtroppo diventato una vulgata difficile da correggere. Nella mostra Becoming Another organizzata dal Rubin Museum di New York e curata da Jan Van Alphen, le didascalie di alcune maschere nepalesi recitano “Possible Shamanic Mask” anche se nella scheda allegata si dichiara che non esistono prove dell’esistenza di maschere himalayane indossate da sciamani; questo però non toglie nulla alla straordinaria qualità delle opere scelte da Van Alphen.
Alla luce delle ultime ricerche e pubblicazioni l’origine e l’uso di alcune tipologie è certamente più chiaro. Molte maschere sono rituali o cerimoniali, altre sono utilizzate nel teatro popolare; alcune hanno una funzione apotropaica, altre ancora danno un volto agli spiriti della natura, ad antenati e defunti.  La maggior parte di esse è portata sul volto, ma alcune sono semplicemente posate per terra o appese alle facciate delle case. Il mistero è in parte svelato, ma in parte rimane per molte di quelle che provengono dalle “Montagne Centrali” del Nepal. Anche se concordo con l’auspicio di Marc Petit che gli antropologi riescano a scavare nella memoria delle comunità con un metodo quasi archeologico per risalire alle origini di queste maschere, personalmente temo che i risultati non possano essere risolutivi.

NEPAL, UN MONDO TRASFORMATO. Sono passati più di quarant’anni da quando queste maschere sono comparse sul mercato di Kathmandu. Si sono susseguite due generazioni che hanno vissuto cambiamenti epocali: emigrazioni per sfuggire alla terribile povertà delle montagne, maggiori facilità di trasporto e di  comunicazione tra comunità sperdute nelle montagne  e centri urbani, il collegamento con la rete elettrica e l’arrivo nei villaggi più grandi di radio e televisione. Ma è stata anche la guerra civile tra le truppe governative e i guerriglieri maoisti che ha costretto centinaia di migliaia di rifugiati ad abbandonare i luoghi di origine e di conseguenza a perdere le tradizioni che si tramandavano oralmente da una generazione all’altra. Un tempo il re era considerato incarnazione di Vishnu ed esisteva anche lo sciamano di corte; ora la famiglia reale è scomparsa, travolta da drammatici cambiamenti politici e sociali.
Nonostante la conoscenza di queste maschere presenti ancora delle zone d’ombra, il loro fascino rimane immutato. È il fascino che ha indotto Luciano Lanfranchi a creare questa collezione e che Sam e Sharon Singer così descrivono: “Siamo attratti dalle maschere himalayane per l’abilità degli artigiani tribali di dare alla materia una determinata forma e di infondervi una visione personale. Guardare le maschere e le figure nepalesi significa contemplare esempi della fantasia degli artisti… Il loro sistema di credenze -quel misto di buddhismo, induismo e animismo- dà un notevole apporto all’apprezzamento della potente esecuzione e della bellezza dei loro manufatti.”

È la stessa risposta che ho avuto da molti altri appassionati collezionisti e mercanti, la stessa che riassume il sentimento mio e di quanti compaiono in questa appassionante storia delle maschere primitive himalayane. È come guardare una compagnia di personaggi misteriosi, simpatici, belli, comici, orribili, aggressivi, bonari, stralunati, minacciosi, ridicoli, profondi, feroci, una specie di Antologia di Spoon River “mascherata” anche se non si sa con certezza chi rappresentino.

Maschera teatrale a forma di teschio
India, Arunachal Pradesh
Gruppo etnico Monpa
Legno

Maschera di Bhairava
Nepal, Valle di Kathmandu
XVI secolo
Terracotta
H.43 cm

Renzo Freschi
info@renzofreschi.com
1 Commento
  • Gianfranco Rimoldi
    Pubblicato alle 07:57h, 09 Aprile Rispondi

    Complimenti per l’interessante articolo, che contiene di fatto storia e riferimenti sulla diffusione di interesse e collezioni di maschere himalayane in Europa.
    Alcune delle persone citate le ho incontrate e ne ho un vivo ricordo. In particolare Angelo Attili e Roberto Gamba che a modo loro mi hanno insegnato un po’ di cose sulla ricerca ed il collezionare.

    La saluto, ancora complimenti , e spero di poterla di nuovo incontrare presto.
    Franco Rimoldi

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