MISTERO E BELLEZZA DEI BRONZI KONDH

Protetti per secoli dalle foreste incontaminate dell’Orissa (Odisha), Stato dell’India centro orientale, le tribù Kondh furono “scoperte” per la prima volta intorno al 1835 da una spedizione inglese che inseguiva un raja (re, principe), evasore fiscale e sobillatore anti britannico, che si era rifugiato proprio presso questo popolo ottenendone protezione. Risolto il problema del raja ribelle con una guerra durata tre anni e una repressione che sfiorò il genocidio, gli inglesi si occuparono dell’aspetto più sconcertante della cultura dei Kondh, i sacrifici umani, e riuscirono “con le buone o con le cattive” a convincerli a sostituire le vittime umane con il sacrificio di bufali. Da allora, tranne sporadici studi e relazioni di funzionari, i Kondh furono quasi dimenticati fino alla fine degli anni ’60 quando le culture e le arti dei nativi dell’India (adivasi) furono scoperte da antropologi e studiosi non solo indiani.

Finalmente si comprese l’importanza di un’arte che un appassionato artista indiano, K.C. Aryan, definiva “l’arte negletta “ dell’India riferendosi a tutte quelle forme artistiche popolari e tribali considerate quasi insignificanti rispetto all’antica arte classica. Nel 1968 la studiosa americana Stella Kramrisch organizzò una mostra intitolata “Unknown India” dove l’India sconosciuta è proprio quella dei villaggi e delle numerose tribù che ne occupavano dei vasti territori. Nel 1916 il Victoria and Albert Museum aveva acquistato un certo numero di figure in bronzo Kondh ma la vera scoperta o meglio la riscoperta della loro arte avvenne proprio grazie al nuovo approccio all’arte indiana. Nel 1977 Arts of Asia pubblicò il primo studio specialistico sui bronzi Kondh (Barbara Boal, Kondh Bronzes) al quale ne seguirono altri, e numerose mostre che li fecero conoscere al grande pubblico (1980 Ritberg Museum di Zurigo, 1985 MET di New York, 1988 Setagaya Art Museum di Tokyo).

Ma cosa hanno i bronzi Kondh di così speciale da renderli celebri nel campo delle arti primitive indiane e non? Sicuramente la tecnica con la quale sono stati e vengono tuttora  prodotti, poi i loro molteplici usi e significati e infine la loro particolare qualità estetica. Tecnicamente queste figure sono eseguite “a cera persa”, un’antica pratica metallurgica usata sia da altre tribù indigene sia dai tradizionali laboratori indù; i bronzi Kondh tuttavia mostrano una tecnica ancora più complessa dato che sono interamente coperti con sottili fili di cera (che durante la fusione diventano di metallo) che creano un reticolo simile alla trama di un tessuto, rendendoli unici e immediatamente riconoscibili.

Altro aspetto interessante è che queste statuine non erano e non sono prodotte dagli stessi Kondh -che ritengono disonorevole ogni attività al di fuori dell’agricoltura e della caccia-  ma da artigiani che appartengono alla classe degli “intoccabili” indù e vivono ai margini dei villaggi Kondh. Severi tabù proibiscono le unioni tra i due gruppi ma la convivenza secolare ha creato un’empatia che ha permesso ai fuori casta indù di divenire gli interpreti dell’immaginario Kond e di rappresentarlo come se fosse il loro.

I Kondh hanno una religione legata al culto della natura priva di immagini divine, infatti le due divinità principali, Bura Pennu, il sole-creatore e Tara Pennu la dea-madre-terra che insegnò agli uomini come sopravvivere (alla quale in origine erano offerti i sacrifici umani poi sostituiti da un bufalo) non sono mai raffigurate. I sacrifici a questi due progenitori sono celebrati davanti a una specie di altare, al centro del villaggio, formato semplicemente da tre pietre (simbolo di due genitori e un figlio, i proto-antenati dei Kondh). Intorno all’altare sono poste proprio quelle figure in bronzo che rappresentano il mondo dei Kondh: quelle di animali manifestano il mondo della natura mentre quelle umane incarnano gli antenati che hanno creato e conservato la storia della tribù. Le figure degli antenati sono raccolte in un cesto e poste vicino al focolare domestico, cuore reale e simbolico della famiglia ed è proprio il fumo del fuoco a ricoprirle di una patina nera comune a tutti i bronzi Kond.  Solo in occasione di malattie, scontri con altre tribù o problemi della comunità o di una famiglia le statue sono portate all’aperto e consultate con riti particolari. L’uso più comune dei bronzi è comunque di far parte della dote che una sposa porta alla famiglia del marito dove andrà a vivere. La preparazione dei regali che oltre alle statue comprende anche oggetti d’uso quotidiano, sempre in bronzo, può richiedere anni ed è legata al rango della famiglia e alle sue disponibilità economiche. Il giorno del matrimonio infatti la dote -come i doni fatti dallo sposo- saranno esposti al pubblico che inevitabilmente li commenterà. Questa tradizione è ormai persa, superata dal dono di oggetti di consumo moderno anche tecnologici ben più appetibili dai giovani sposi di quelle statuine ricoperte di nerofumo che tuttavia sono ancora prodotte come identità tribale e per il commercio.

Sono proprio queste figure in bronzo, più delle parole, a introdurci nel mondo dell’arte Kondh. Isolati da una giungla impenetrabile, con sporadici contati con altre etnie spesso ostili, la loro realtà è stata da sempre la natura nella quale erano immersi, una natura misteriosa e quindi magica, dove animali docili e feroci erano più numerosi degli umani. Per secoli li hanno cacciati ma anche osservati fino a conoscerne il carattere, tanto che alcuni animali sono divenuti emblema totemico dei vari clan che compongono la tribù. Così quando furono prodotte le prime statue di antenati non poteva mancare quella specie di arca di Noè che è il bestiario Kondh: una infinita gamma di cervi, gazzelle, bufali, tartarughe, tigri, scorpioni, rane, coccodrilli, pavoni, cinghiali, serpenti, uccelli e persino gli elefanti (che i Kondh videro solo con l’arrivo degli inglesi (1835). Le loro figure pur mantenendo un quasi-realismo che permette -ma non sempre- di riconoscerli subiscono tuttavia una trasfigurazione che mescola il reale all’immaginario con risultati talvolta caricaturali, umoristici e persino surreali: la tartaruga con tre teste, il pesce con quattro zampe, lo scorpione con testa umana….Lo stesso accade per le figure umane dalle quali traspare l’indole più della forma, oppure in qualche caso una bellezza ideale che trascende le proporzioni anatomiche: immagini che evocano più che descrivere.

Alla spontanea semplicità di queste figure si unisce l’intrecciarsi dei sottili fili di metallo che le ricoprono creando un contrasto di luce che le anima come presenze vive. Ecco svelato il mistero e la bellezza dei bronzi Kondh.

Tutte le opere appartengono alla collezione del Dott. Giuseppe Berger. Sono state acquistate tra gli anni ‘80 e ‘90 del ‘900 e risalgono alla prima metà del XX secolo.

Renzo Freschi
info@renzofreschi.com
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