
15 Giu IL MISTERO DEI BRONZI KOND
di Renzo Freschi
I Kond fanno parte di quei numerosi gruppi tribali che vivono in India da tempo immemorabile, prima ancora dell’arrivo delle invasioni Arie nel II millennio a.C. e per questo chiamati genericamente Adivasi (da adi– i primi e vasi– abitanti). Nella prima metà del XIX secolo furono scoperti dagli Inglesi che quando li videro praticare sacrifici umani li costrinsero a utilizzare un bufalo in occasione dei riti per propiziare la fertilità della natura e l’abbondanza delle messi, come avviene tuttora. Gli studiosi inglesi furono colpiti dalla loro produzione artistica e certe statuine in metallo furono presentate in alcune esposizioni già alla fine del ‘800 e poi acquistate dal Victoria and Albert Museum. Solo in questi ultimi decenni l’arte degli Adivasi e in particolare dei Kond fu riscoperta e presentata in mostre che ne hanno evidenziato il significato culturale e il valore estetico.
Sono immagini di animali e uccelli, simboli totemici dei clan che compongono una tribù, della dea madre e degli antenati, in forme diverse e spesso misteriose: figure del mondo reale e di quello religioso rappresentate con una libertà che spesso ne impedisce l’identificazione dato che i loro nomi cambiano di villaggio in villaggio. Anche il significato di questa statua è dunque incerto: potrebbe essere emblema della dea-madre come quello di una antenata oppure semplicemente di una donna che torna o che va verso il pozzo del villaggio. Le figure degli antenati sono raccolte in una cesta e conservate vicino al focolare domestico, cuore reale e simbolico della famiglia ed è proprio il fumo del fuoco a ricoprirle di una patina nera comune a tutti i bronzi Kond. Talvolta vengono create anche composizioni di varie figure e animali destinate al corredo nuziale
Un elemento peculiare delle statue Kond come di altri gruppi di Adivasi è la tecnica con cui sono prodotte, detta “a cera persa”. La figura, modellata con argilla o altro materiale, è interamente ricoperta con sottili fili di cera speciale che creano un reticolo simile alla trama di un tessuto. Viene poi avvolta in una “camicia” di argilla con uno o più fori alle estremità e posta sul fuoco. Nelle aperture superiori viene versato il metallo che prende il posto della cera che, sciolta dal calore, fuoriesce da quelle inferiori. Uno degli aspetti più interessanti di queste statue in bronzo è che non sono prodotte dagli stessi Kond -che ritengono disonorevole ogni attività al di fuori dell’agricoltura- ma da comunità di artigiani che appartengono alla classe degli “intoccabili” indù e vivono ai margini dei villaggi Kond. La vicinanza non è mai diventata assimilazione dato che severi tabù proibiscono le unioni tra i due gruppi ma la convivenza secolare e l’accettazione reciproca hanno creato un’empatia che ha permesso ai fuori casta indù di divenire gli interpreti dell’immaginario Kond e di esprimerne la cultura come se fosse la loro.
Un esempio importante dello “stile Kond” è proprio questa statua, una delle più grandi che si conoscano, alta 48 cm. mentre in genere sono al massimo di circa 25 cm. Il corpo (diviso in due parti) è composto da semplici forme geometriche sovrapposte dove sono accennati alcuni elementi anatomici -le ginocchia, i seni, l’ombelico- e pochi altri come la fascia-perizoma, i collari stretti sul collo filiforme e lo chignon dei capelli. Le braccia sono filamenti che collegano il corpo al vaso dell’acqua e alla coppa con cui berla. I piedi sono una sottile lamina di metallo, come a sottolineare un corpo che nasce direttamente dalla terra e che da essa trae la sua energia. E’ evidente una certa ricerca naturalistica: i glutei sporgenti e le spalle possenti che esprimono la forza per affrontare una vita non certo facile, ma è trasfigurata da forme semplici e essenziali. Il risultato è una immagine senza tempo che con gioiosa spontaneità trascende il dove, il come e il quando, categorie che in questo caso appaiono secondarie rispetto alla sua immediata potenza evocativa.
Quando ho visto questa statua ho avuto un tuffo al cuore. Quante volte, in India, ho visto le donne tornare dal pozzo con il vaso colmo d’acqua sulla testa e la mano alzata per trattenerlo. Camminavano con la scioltezza di una danzatrice, coniugando l’innocente ma evidente sensualità con la grazia di un felino. Contro la luce dell’alba o del tramonto i loro fianchi si muovevano come un’inebriante altalena. L’India tuttavia non è solo la sensualità delle classiche sculture amorose di Khajuraho; c’è un’altra India e mi riferisco a quella tribale, tuttora capace di creare immagini che coniugano storia millenaria e modernità, come un graffito in una caverna preistorica o il taglio in una tela di Fontana. Tutto ciò io vedo in questa statua Kond.
Renzo Freschi
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